Pietro D’Alì: “Il mio amore per la vela nacque con un rudimentale spark da 3,50 metri”

È l’unico velista italiano a partecipare al Giro del Mondo, alle Olimpiadi, alla Louis Vuitton Cup e alla finale di Coppa America e agli eventi maggiori della grande altura internazionale e mondiale

Pietro D’Alì è nato a Milano il 5 luglio 1963. Cresciuto nella Riviera ligure, scopre subito la passione per il mare e le barche, timonando il gozzo di famiglia all’età di 3 anni. A 7 anni, durante le vacanze in un posto molto ventoso della Sicilia, inizia le sue prime esperienze veliche su uno Spark (piccola deriva a spigolo con randa e fiocco).

Tornato in Riviera, continua con l’Optimist nella scuola vela di Portofino. A 13 anni fa poi parte dell’equipaggio del Guia IV, la barca di Giorgio Falck, dove diventa amico di Giovanni Verbini, conosciuto da tutti come Jepson, velista e marinaio per passione e professione, che ha attraversato tutti gli oceani del mondo come marinaio di fiducia dell’armatore.

Regata in 420 e 470 diventando Campione Italiano di entrambe le classi. Oltre ad andare in deriva, non perde occasione di navigare su barche d’altura e girare per tutto il Mediterraneo. Pietro D’Alì è uno tra i velisti italiani più completi. L’unico velista italiano a partecipare al Giro del Mondo, alle Olimpiadi, alla Louis Vuitton Cup, alla finale di Coppa America, agli eventi maggiori della grande altura internazionale e a innumerevoli campionati mondiali, europei e nazionali nelle classi più disparate (420, 470, Star, J22, J24, Asso 99, Laser SB3). È stato inoltre l’unico italiano nella storia a vincere una tappa alla Solitaire du Figaro.

Ha partecipato a due edizioni della Coppa America con il team Prada. Nel 2000 è stato randista di Luna Rossa nella finale di Coppa America contro Team New Zealand, dopo aver fatto parte dell’equipaggio vincitore della Louis Vuitton Cup. Terminata la sfida del 2000, si è dedicato alla campagna con la Star in vista delle Olimpiadi di Sydney, dove si è classificato decimo.

Dal 2005 ha iniziato a regatare sul Figaro Beneteau, classe monotipo per regate in solitario e in coppia, molto popolare in Francia. Ha partecipato alle più importanti regate della classe, maturando significative esperienze e conseguendo risultati mai ottenuti prima da velisti italiani in questo tipo di competizioni.

 

Pietro D’Alì, il suo incontro con la nautica è stato precoce: a 3 anni era già al timone. Si respirava tutta questa salsedine in famiglia?

Il mio bisnonno paterno era armatore, di una delle ultime navi a vela commerciali, varata a fine Ottocento, e possedeva un cutter di 16 metri da diporto. I miei genitori erano entrambi acquatici; non hanno faticato a trasmettermi la passione per l’acqua: era innata, il problema era farmi uscire dal mare.

A 7 anni, invece, l’incontro con la vela. Cosa si ricorda di quelle prime esperienze?

La casa di vacanza del nonno in Sicilia, aveva il giardino, confinante con la scogliera, una boa, con all’ormeggio “Scuffia”, uno Spark, piccola deriva a spigolo di 3,50 metri, costruita a Savona in plastica Abs, armata con randa aurica e fiocchetto, una barca molto rudimentale.

Fu amore a prima vista. Tutte le mattine al sorgere del sole, la raggiungevo a nuoto alla boa, issavo le vele, mollavo la boa e da solo bordeggiavo davanti casa, fino a che la brezzetta di terra mattutina non finiva. Poi sott’acqua con maschera e pinne e fiocina, in cerca di sogliole e triglie. A mezzogiorno grigliata di pesce in giardino con i pesci pescati da papà. Nel frattempo entrava una bella brezza fresca, termica di mare.

Finito il pranzo cominciavo a scalpitare per uscire a vela, perchè mi serviva peso, ero troppo leggero. Allora dovevo convincere mio padre a saltare la siesta di riposo per le ore passate a fare pesca subacquea; ero talmente insistente che l’ho sempre spuntata.

Mi divertiva sia portare con delicatezza e sentire lo sciaquettio della prua nel poco vento della mattina, che planare e dominare la forza delle scotte con il vento teso del pomeriggio, la randa non aveva strozzatore.

Già da piccolo avvertivo il pericolo e la forza del mare. Da una parte lo rispettavo, con una certa prudenza provando paura, ma dall’altra volevo mettere a prova le mie capacità. Credo, a gradi, sono riuscito a conoscere i miei limiti e migliorare la consapevolezza, che ti fa gestire la paura.

Quando il mare frangeva e la barca veniva alata sulla scogliera, andavo in spiaggia per nuotare nei frangenti oppure mi allenavo a salire sugli scogli, aspettando il momento giusto.

Poi una carriera brillante, ricca di vittorie, piazzamenti e soddisfazioni. Quando ha capito che la sua passione per la vela sarebbe diventato anche il suo lavoro?

Spesso, lavorativamente, quello che desidera la famiglia, cozza con le proprie aspirazioni. nel mio caso la nonna materna, aveva un’azienda agricola vicino a Milano e sperava in un mio interessamento, che è durato qualche anno. Ai tempi la vela agonistica era diversa, la nonna per quanto orgogliosa dei miei risultati velici, mi ricordava che non era un lavoro.

Allora aveva ragione… Ma invece con il tempo mi sono trovato a vivere solo di vela. L’agonismo è fatto di adrenalina: tutte le volte che vinci, passando l’avversario ostico, negli ultimi metri prima dell’arrivo, hai quella scarica che ti fa tremare le gambe. Vincere facile non è la stessa emozione, più che il tipo di barca è il livello dei tuoi avversari che fa la differenza.

C’è una regata alla quale ha partecipato che l’ha emozionata più di altre? Perché?

In particolare ricordo durante la Solitaire la vittoria della Rochelle, considerata la mecca della vela. In quell’occasione portai via la tappa ai francesi a casa loro, lasciando in scia 48 avversari, nella terza notte di regata, dopo aver duellato con il secondo nelle ultime 40 miglia.

Il porto era affollato di gente per festeggiare, tanto da non riuscire a scendere sul pontile; avevo cinque microfoni puntati per l’intervista appena messe le cime di ormeggio.

Si percepiva la rivalità Francia-Italia. Io ero “les italien”, unico straniero ad aver vinto una tappa nella storia della Solitaire, record che non ho ancora perso. Gli arrivi in Spagna e Irlanda non erano così sentiti dalle persone.

Dall’Optimist alla Coppa America. Qual è il tipo di regata e di classe in cui si trova più a suo agio e che la diverte di più?

Le classi olimpiche sono quelle che formano la maggior parte dei campioni e le guardo con molto interesse. Ma devi avere tempo e mezzi perché possa diventare l’attività principale; la parte fisica è importante. Sicuramente fossi giovane sceglierei il 49er.

Mi piace correre su entrambe le tipologie di barche: dislocanti lente, con molta inerzia, e leggere plananti. Con le prime le differenze in velocità sono minime, si giocano i piccoli salti di vento, la copertura e il controllo sull’avversario sono fondamentali, se rallenta la barca riaccelerare è costoso. Con le barche veloci, navigare dove c’è più vento prevale sui salti di direzione; minimizzi le manovre, quando trovi la velocità passi facilmente le altre barche.

Su qualsiasi barca mi diverto a timonarla e cercare l’equilibrio sulle vele per portarla al massimo del suo potenziale, entrare in sintonia con le onde e le raffiche, anticipare regolazioni e timone per non perdere assetto, seguire i salti di vento e intuire quelli futuri.

 Ricordo con piacere il Giro d’Italia che è stato formativo per un paio di generazioni: un mese di regate a tappe, con costiere o regata a bastone nel porto di arrivo il giorno seguente. Un programma intenso, senza sosta, con equipaggi professionisti. Era il periodo dove le città davano il nome alla barca e sovvenzionavano insieme a uno sponsor. I giovani potevano gestire economicamente il loro programma. 

Cosa dicono oggi di Pietro D’Alì in Francia? Qual è il rapporto tra i francesi e la vela?

Per la Francia è ancora possibile, per questo la vela offshore in solitario gode di ottima salute e la parte atlantica ha flotte numerose di Mini, Class 40, Figaro, Open60 e trimarani.

Oltre all’aspetto fiscale e politico, che ha un occhio attento alla nautica e alla competizione, sulla scia di Tabarly, i francesi hanno mantenuto alto l’interesse per tutta la vela offshore nella gente, che di base ha già una cultura marina sviluppata. Dirette televisive, villaggi per la partenza, hanno dato visibilità agli sponsor, centri di allenamento e marina con spazi riservati alle barche da competizione hanno generato un indotto per la cantieristica e una attrazione per i diportisti.

Il Figaro è la classe più competitiva e professionale per solitari. Arrivano ogni anno giovani forti anche dalle classi olimpiche, ci sono velisti maturi che hanno più di dieci anni di stagioni sulla classe e miti della altura miei coetanei, che tornano a correre la Solitaire, come Peyron, Desjoue, Gautier.

Il percorso varia ogni anno. Ma sempre tra Normandia, Manica, Irlanda, Bretagna, Nord della Spagna. Quattro tappe tra 400 e 600 miglia, con un paio di giorni di riposo tra le tappe. Si parte sempre con un percorso tecnico tra boe nella baia per poi continuare con altre difficoltà studiate ad hoc dagli organizzatori comprendono, bassifondi, isole, delle navi sulla rotta da evitare, zone di mare aperto e pericoli lungo costa. Tutto spesso tra correnti forti di marea. Il tempo per dormire poco, solo qualche micro sonno.

I francesi sono prevenuti con gli italiani io mi sono presentato con umiltà e poi sono andato forte. Questo mi è stato riconosciuto con sportività. Una volta mi hanno sopranominato “Pietro Ferrari” su una rivista, finito un allenamento, il “gladiatore”.

Il più bel complimento l’ho ricevuto da Kito con cui abbiamo vinto la Transat ag2r: quando i giornalisti prima della partenza gli hanno chiesto perché correva in doppio con un italiano, ha risposto che preferiva avermi in barca, con lui piuttosto che contro.

L’ultima regata in Figaro è stata la Medsolo 2012, con vittoria di tappa Marsiglia – Aiaccio e la Transat Jaquevabre o il Class 40 in coppia 2013. La voglia di tornare alla 51ª Solitaire non manca: dopo 15 anni di Figaro 2, lo scorso anno è subentrato il Figaro 3 con il foil.

 

Giuseppe Orrù

Foto di Claudio Colombo

 

NAUTICA IN UN RITRATTO. Un progetto di Liguria Nautica e Claudio Colombo che propone una galleria di personaggi liguri o comunque con un legame con la nostra regione, che hanno lasciato un segno nella nautica italiana o con profonde radici e sinergie con il nostro mare. Per ognuno di loro, vi presenteremo un ritratto fotografico realizzato da Claudio Colombo e un’intervista del nostro giornalista Giuseppe Orrù, per conoscere meglio ogni protagonista, anche con curiosità sulla loro vita privata.

 

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